appunti del Prof. Roberto Zironi, Università degli Studi di Udine (Italia) in onda nel programma "Vita nei campi" trasmesso dall'emittente RAI FVG
Documenti storici e ritrovamenti archeologici datano l’inizio della coltivazione della vite, e della conseguente trasformazione dell’uva in vino, circa nell’8.000 a.C.. Successivamente, dalla mezzaluna fertile ove sono state ritrovate le prime indicazioni e i primi documenti sulla sua coltivazione, la vite viene rintracciata dal punto di vista archeologico prima nel 4.000 a.C. in Egitto e successivamente nel 3.000 a.C. in Grecia.
In Italia la vite compare come pianta coltivata nelle colonie della Magna Grecia circa attorno al 2.000 a.C. e, nel nord dell’Italia ad opera degli Etruschi che coltivavano le viti portate nella penisola dai commercianti Fenici, circa attorno al 1.000 a.C.. Anche la mitologia antica cita la vite e il suo prodotto di fermentazione (il vino): sia nel poema epico dei sumeri (l’epopea di Gilgamesh) che nella bibbia dove viene citata la coltivazione della vite e la trasformazione dell’uva in vino immediatamente dopo il diluvio universale. È infatti noto che una delle prime occupazioni di Noè, dopo lo scampato pericolo, fu quella di piantare vigneti così da raccoglierne i frutti e, dopo averli fatti fermentare, ottenere un “vino” con il quale si ubriacò. Curioso notare come, anche a quei tempi, il prodotto della fermentazione dell’uva fosse molto apprezzato. Una notazione storica che ha riflessi tecnologici molto moderni è quella che ci deriva dall’Odissea: Ulisse dopo aver vagato nel Mediterraneo per 10 anni finalmente ritorna ad Itaca e per farsi riconoscere come legittimo figlio dal padre cieco Laerte deve fornire prove inconfutabili. Oltre a citare la famosa ferita infertagli da un cinghiale alla gamba, Ulisse ricorda anche i frutteti che il padre gli aveva donato e tra cui spicca un vigneto di ragguardevoli dimensioni costituito da tante uve di varietà diverse che maturavano in epoche differenti. È facile intuire che il destino di quelle uve fosse proprio la produzione di vino, e ciò sta ad indicare come molto probabilmente già a quei tempi l’uvaggio, cioè la mescolanza delle differenti uve così diverse tra loro, fosse indicata come una procedura di ottenimento e miglioramento delle caratteristiche qualitative del vino.
"Tu il figlio mio?
Dammene un segno, e tale,
Che in forse io non rimanga un solo istante".
E Ulisse: "Pria la
cicatrice mira
Della ferita che cinghial sannuto
M'aperse un dì sovra il Parnaso, quando
Ad Autolico io fui per quei che in Itaca
M'avea doni promessi, accompagnando
Col moto della testa i detti suoi.
Gli arbori inoltre io ti dirò, di cui
Nell'ameno verzier dono mi festi.
Fanciullo io ti seguìa con ineguali
Passi per l'orto, e or questo árbore, or quello
Chiedeati; e tu, come andavam tra loro,
Mi dicevi di lor l'indole e il nome.
Tredici peri a me donasti e dieci
Meli e fichi quaranta, e promettesti
Ben cinquanta filari anco di viti,
Che di bella vendemmia eran già carche:
Poiché vi fan d'ogni sorta uve, e l'Ore,
Del gran Giove ministre, i lor tesori
Versano in copia su i fecondi tralci".
Da un punto di vista strettamente
botanico l’uva coltivata nell’antichità è la Vitis Vinifera che si distingue in
2 sottovarietà: la Vitis vinifera silvestris, che è quella che ritroviamo nei
boschi del continente indo europeo, e la Vitis vinifera sativa che costituisce
il risultato dell’addomesticazione della Vitis silvestris. A causa del continuo
incrocio tra le varietà trasportate nei diversi territori indo europei e le Vitis
silvestris proprie di questi territori, si originarono per semenzali dei nuovi
individui che riprodotti per via agamica sotto forma di talee fissarono dei
caratteri interessanti. Questa è stata un po’ l’origine di tutte le varietà
coltivate sin dall’antichità e che si sono continuate a rinnovare nel corso dei
secoli. Se consideriamo l’aspetto più prettamente inerente alla penisola
italica, come abbiamo ricordato precedentemente, se la coltivazione della Vitis
vinifera sativa data il 2.000 a.C. nel sud Italia e il 1.000 a.C nel nord
Italia, questo sta ad indicare che tali varietà erano considerate utili sin
dall’antichità e per questo motivo furono trasportate sia dai greci che dai
fenici in tutto il mediterraneo.
Nulla toglie che sul continente italico fossero, e sono tutt’oggi presenti, degli individui di Vitis silvestris che hanno originato nel corso dei secoli successivi anche delle varietà che potremmo definire più nettamente autoctone, ovvero tipiche del territorio italiano. Particolarità che riguarda anche la viticoltura di quel periodo sta nella forma di allevamento della vite, che risulta essere ad alberello, ovvero bassa e a forma di piccolo albero, in tutte le aree meridionali mentre nelle aree settentrionali risulta essere lontana dal terreno e spesso maritata con dei tutori vivi, gli alberi, o più recentemente con dei tutori morti, palificazioni, a formare le così dette piantate.
La risposta a questa domanda si può dedurre dai rilievi archeologici, dalle pitture murali dell’antico Egitto e dalle raffigurazioni presenti nei vasi greci o nei mosaici e steli di epoca romana.
La fase fondamentale della produzione del vino è quello di ottenere un succo fermentescibile: il succo d’uva contiene glucosio e fruttosio che sono zuccheri direttamente fermentescibile, è quindi sufficiente estrarlo dall’uva per ottenere una fermentazione alcolica con produzione di vino.
Dobbiamo però ricordare che da un punto di vista della stabilità microbiologica del sistema il destino finale della trasformazione degli zuccheri non è il vino, ma bensì l’ossidazione del vino ad aceto per azione dei batteri acetici.
Quindi il grosso problema che hanno subito dovuto affrontare gli antichi era come ottenere tramite la fermentazione una bevanda vinosa conservabile piuttosto che farla evolvere in un prodotto acetoso.
Il risultato si otterrà nel corso dei secoli applicando una serie di procedure che porteranno allo sviluppo di diverse strategie tecnologiche: la produzione di vini ad alta gradazione alcolica e la sua conservazione in ambienti freschi all’interno recipienti colmi, tappati e quindi al riparo dall’ossigeno.
Come si otteneva nell’antichità il succo dell’uva? Più precisamente, quale era la tecnica usata per la separazione del succo dalle bucce?
Lo strumento principale che veniva utilizzato era il palmento.
Il palmento è una struttura che può essere di origine naturale (una pietra incavata) oppure artificiale (una platea con bordi rialzati non troppo alti) in cui l’uva intera viene stesa per essere poi successivamente pestata. Attraverso questa operazione di pigiatura con i piedi si separava il succo dalle bucce e le bucce da parte dei raspi.
Attraverso un foro posto nella parte inferiore del palmento il succo ed eventualmente le bucce venivano travasate all’interno di contenitori particolari in cui avveniva la fermentazione. Questa operazione meccanica di pigiatura con i piedi non portava a un completo esaurimento del succo presente nell’acino d’uva, per questo motivo già in epoca egizia si erano realizzati degli strumenti rudimentali (simili ai nostri attuali torchi) con cui si cercava di esaurire il succo rimasto all’interno delle uve garantendo un aumento della resa di trasformazione dell’uva in vino.
Come già ricordato il succo ottenuto veniva trasferito all’interno di recipienti di fermentazione costituiti da otri di grandi dimensioni (circa 10 ettolitri) che venivano interrati per fare in modo che la fermentazione avvenisse a contatto con il terreno, che agiva così da termoregolatore naturale per smaltire il calore prodotto dalla fermentazione.
Il vino fermentava negli otri per periodi molto lunghi, anche di alcuni mesi, e poi veniva travasato all’interno di contenitori più piccoli di conservazione.
Tali contenitori erano le anfore
vinarie, aventi capacità intorno ai 20 litri in cui veniva conservato il
prodotto in attesa del consumo finale.
Aspetto molto interessante dal punto di vista tecnologico è che questi contenitori così antichi sono recentemente ritornati all’attenzione della produzione enologica anche nel nostro paese: ad esempio, in alcune cantine del Collio piuttosto che nella zona del Carso, alcuni produttori, andando a reperire direttamente nei territori georgiani questi otri o acquistandone di nuova manifattura nazionale, li utilizzano questi per produrre dei vini particolari chiamati Orange wine. La particolarità di questi vini è che derivano da una concezione produttiva che cerca di rifarsi il più possibile a quella degli antichi produttori di vino di cui abbiamo parlato.
Mentre le giare di fermentazione
sono state praticamente abbandonate in epoca medioevale i palmenti sono stati
presenti nelle cantine del sud dell’Italia sino alla fine dell’ottocento.
Nell’Italia del nord in epoca post romana si privilegiano invece tini di
pigiatura in legno.
In epoca post romana il palmento evolve e alla platea di pigiatura viene affiancata a sostituire gli otri di ceramica una vasca bassa di fermentazione. La termoregolazione della fermentazione viene garantita in questi casi dalla elevata superficie esposta all’aria e dai frequenti rimescolamenti della massa in fermentazione. Nel nord i succhi vengono invece fermentati preferenzialmente in tini e botti di legno all’interno di cantine fresche.
Ancora ai giorni nostri
permangono però alcuni casi molto particolari di pigiatura e fermentazione in
strutture simili agli antichi palmenti. Se infatti andiamo a osservare la
tecnologia di produzione dei vini di Porto, si può notare come essi prevedano
che la pigiatura e la fermentazione avvengano all’interno di moderni palmenti
costituiti da vasche a superficie molto ampia e di bassa altezza.
Abbiamo già ricordato come il problema enologico dell’antichità fosse la conservazione del vino a causa della sua tendenza a diventare aceto. Con l’evolversi delle tecniche di vinificazione, inizialmente con gli egiziani e successivamente con i greci, fu posta particolare attenzione nella vinificazione di uve particolarmente ricche di zuccheri.
In tal modo l’alta gradazione alcolica ottenuta per effetto della fermentazione era in grado di conservare il vino più a lungo impedendone o comunque rallentando in maniera significativa il processo di acetificazione dello stesso.
Si era inoltre scoperta la relazione tra il contatto con l’ossigeno del vino e lo sviluppo di batteri acetici, per questo motivo anche i contenitori atti alla conservazione del mosto fermentato venivano sigillati così da impedire un eccessivo arieggiamento del contenuto.
I vini prodotti nell’antica Grecia erano fondamentalmente dei vini concentrati, ovvero vini con tenore alcolico tra i 16 e i 18 gradi alcool. Tali vini erano ottenuti tramite fermentazioni molto lente, mediante mesi di permanenza del vino a contatto con le bucce o del mosto all’interno dei contenitori di fermentazione.
Nel caso dei greci questi contenitori prendono il nome di Pithoi e sono molto simili concettualmente alle anfore georgiane.
Il vino dai Pithoi veniva poi travasato e conservato all’interni di anfore vinarie che venivano utilizzate anche per il trasporto e la commercializzazione. Queste anfore venivano rese impermeabili mediante l’utilizzazione di resine vegetali.
La conservazione del vino nelle anfore rese impermeabili dalle resine vegetali ne provocava una sua aromatizzazione; ancora oggi un particolare vino Greco aromatizzato con resina del pino d’Aleppo, il Retzina, testimonia di questa antica caratteristica del vino.
Il vino non veniva consumato tal quale, questo perché la sua elevata gradazione alcolica aveva il solo scopo di conservante. Quando il vino doveva essere consumato esso veniva diluito opportunamente con acqua ed eventualmente addizionato di miele ed erbe aromatiche. E’ noto però che il vino caldo è poco gradevole quindi spesso l’acqua di diluizione era fredda oppure veniva aggiunta della neve, che veniva conservata durante l’anno in apposite ghiacciaie, direttamente nei contenitori di mescita.
Si può ipotizzare che i Greci bevessero un vino simile ai nostri Vermout. Un accenno particolare va fatto sulla modalità in cui avveniva la diluizione del vino: esso veniva posto all’interno di Crateri ovvero vasi molto ampi che si trovano spesso ancora oggi come reperti archeologici della Grecia o della Magna Grecia.
Questa operazione avveniva durante una occasione particolare che prendeva il nome di Simposio.
Il Simposio era un momento in cui le persone si trovavano per discutere di argomenti importanti ma anche ludici e nel frattempo bevevano questo vino che veniva diluito all’interno del cratere.
L’operazione di diluizione non era lasciata al caso ma veniva svolta da personale addetto, una sorta di sommelier dell’epoca chiamato Simposiarca, che era la persona che possedeva l’abilità di trovare la giusta miscela tra le parti di acqua e di vino ed, eventualmente, di aggiungere sostanze che potevano provvedere alla sua aromatizzazione. Il vino concentrato veniva anche caricato sulle navi per la commercializzazione ma anche per l’utilizzo quotidiano a bordo durante le lunghe traversate. Vi è un passo dell’Odissea che fa menzione del vino concentrato usato a quel tempo sulle navi: quando Ulisse viene intrappolato da Polifemo all’interno della grotta, come stratagemma per fuggire ha la brillante idea di offre il vino contenuto all’interno degli otri al ciclope, facendogli così perdere il senno e permettendo a lui e ai suoi compagni di porsi in salvo.
Abbiamo già ricordato come, nel 2.000 A.C., la coltivazione della vite e la produzione del vino comprare sulla penisola italica meridionale per effetto della diffusione dei greci in quella che poi verrà denominata la Magna Grecia o Enotria. Nella parte settentrionale della penisola invece, per effetto dei commerci nelle aree dove erano presenti gli etruschi, si parla di coltivazione della vite solo intorno al 1.000 A.C..
E’ interessante notare come i territori sotto il controllo degli etruschi fossero molto più: partivano dalla parte meridionale della pianura padana e arrivavano fino alle propaggini più a nord della Basilicata a confinare con la Magna Grecia.
Nel 753 A.C. viene fondata Roma la quale si colloca proprio all’interno del territorio etrusco. Essendo i romani piuttosto bellicosi, iniziarono ad espandersi occupando e approfittando della bonarietà degli etruschi, i quali pensavano molto più a godersi la vita piuttosto che alla guerra. La strategia romana prevedeva, oltre alla guerra, anche la possibilità di integrazione all’interno della struttura di Roma ed in qualche secolo i possedimenti etruschi diventarono integralmente romani.
L’impero romano di occidente cade nel 476 D.C. pertanto per 1200 anni lo sviluppo viticolo ed enologico dell’Italia è strettamente collegato alle vicissitudini storiche di Roma.
Da un punto di vista viticolo nell’espansione di Roma verso nord e verso sud si incontrano usi e tecniche molto diverse.
Al sud predominano le tecniche colturali greche che prevedono che la vite sia allevata bassa con tutori morti (pali di legno o canne). I frutti maturano in vicinanza del terreno e data la loro bassa numerosità per ogni ceppo di vite concentrano notevolmente i loro succhi e si produrranno vini ad elevata gradazione alcolica secondo la cultura greca.
La vite è impiantata per talea, ma l’espansione del vigneto avviene anche per propaggine: si interra durante la stagione vegetativa un tralcio che quanto avrà prodotto radici sarà isolato dalla pianta madre originando un secondo ceppo di vite aggiuntivo al primo.
Al nord predominano le tecniche colturali etrusche che prevedono che la vite sia maritata a tutori vivi (alberi) e quindi i frutti maturano distanti dal terreno per proteggerli dai funghi causa di marciumi del grappolo particolarmente presenti nei climi caldo umidi dell’Italia centro-settentrionale.
La vite è impiantata solo per talea.
Le talee sono dei tralci di vite che vengono fatti radicare e che vengono prelevati da viti che si distinguono per le loro caratteristiche di pregio. Queste viti possono originarsi da semi frutto dell’incrocio tra viti allevati e viti silvestri molto presenti nell’ambiente naturale dell’epoca.
Quindi in epoca Romana si sono prodotti una miriade di nuove varietà di viti frutto della selezione degli incroci naturali.
Per quanto riguarda la produzione del vino la tecnologia romana, pur se perfezionata rispetto a quella greca, faceva sempre riferimento a delle zone di estrazione del succo (palmenti) e a delle giare interrate di fermentazione che prendevano il nome di Dolia.
La conservazione avveniva all’interno di anfore (di circa 20 litri) e per i vini più pregiati si procedeva addirittura ad un invecchiamento artificiale mantenendo le anfore nel sottotetto delle case per lungo tempo. In tali condizioni le anfore, soggette indirettamente al riscaldamento delle case stesse, acceleravano il processo di maturazione del vino in esse contenuto rendendolo pronto per il consumo in minor tempo. Si sviluppa tecnologicamente anche la tecnica di pressatura delle uve con l’adozione dei torchi a leva.
I vini erano esattamente gli stessi prodotti dai greci, quindi vini concentrati ad alta gradazione alcolica. Se la gradazione zuccherina delle uve non era sufficiente a produrre un alto grado, i mosti in fermentazione venivano aggiunti di mosto concentrato a caldo chiamato Sapa. Alla fine si ottenevano quindi vini con caratteristiche organolettiche da mosto cotto che possiamo trovare ancora oggi in alcuni Marsala ambrati o nel vin cotto marchigiano e abruzzese.
Un'altra categoria di vini che venivano prodotti dai romani erano i vini leggeri, ottenuti da uve meno pregiate oppure dalla vinellatura di varietà pregiate (ovvero il passaggio di acqua sulle vinacce esauste) così da estrarre lo zucchero rimasto e ottenere un prodotto leggermente alcolico. Questi vini andavano successivamente in contro ad un leggero inacidimento, diventando una bevanda acetosa (ma che non era aceto) la quale veniva chiamata Posca. La Posca era il vino degli schiavi e delle popolazioni meno abbienti, ma era anche il vino che veniva dato ai legionari all’interno della borraccia che si portavano sempre appresso. Oltre ad avere una funzione dissetante ed energizzante, la Posca essendo una bevanda poco alcolica e acidula aveva anche una funzione sanificante perché se mescolata con l’acqua ne garantiva la potabilità in qualsiasi situazione.
La Posca la ritroviamo anche nella bibbia: quando a Gesù, agonizzante sulla croce, venne offerto aceto dai soldati romani, probabilmente si trattava proprio di questa bevanda. Questo cambierebbe molto l’interpretazione data finora di tale passo del testo sacro, in quanto in questo caso i soldati romani avrebbero fatto un gesto misericordioso nei confronti di Gesù e non un accanimento nei suoi confronti.
Nel 3 secolo a.c. vi è un evento molto importante collegato all’enologia: nella pianura padana diffondono delle popolazioni celtiche, i galli, i quali erano stati attirati dalla qualità della vita e dell’alimentazione della penisola italica, anche grazie al vino che non conoscevano e che impararono ad apprezzare proprio grazie ai rapporti commerciali instaurati con gli etruschi. Perché ci dobbiamo ricordare di questa data? Perché è ascrivibile alla cultura celtica l’uso di contenitori in legno diversi dai contenitori ceramici usati fino a quel momento e tipici della Magna Grecia. Si hanno quindi le prime testimonianze dell’uso di botti di legno per la conservazione del vino e di altri alimenti. Queste botti di legni diversi, ma specialmente di conifere avevano una capacità di qualche decina di litri e venivano chiamate Brenta.
I romani diffusero notevolmente la coltura della vite: si può stimare che al massimo dell’espansione romana, in Italia fosse coltivata vite per una superficie pari a 3 volte quella attuale. Se si considera che le rese per ettaro non erano basse, ma si aggiravano intorno ai 100-150 quintali ettaro, si produceva una quantità notevole di vino che serviva per i consumi di Roma. Tutto ciò senza considerare ciò che veniva importato all’interno della città da tutti i territori che venivano conquistati di volta in volta, a seguito dell’espansione romana.
Arriviamo all’età imperiale romana, dove assistiamo ad un momento enologicamente importante che segna la viticoltura dei territori romani di nuova conquista (ovvero quelli oltre le Alpi) e che fa riferimento ad un evento particolare che si verifica quando è imperatore Domiziano.
Siamo intorno all’anno 90 d.C.: in quel periodo vi fu una grossa carestia che portò alla mancanza delle forniture di cereali necessarie per le esigenze di alimentazione degli abitanti della capitale. Roma a quel tempo aveva un milione di abitanti, i quali dovevano essere sistematicamente sfamati e, per evitare delle insurrezioni o delle rivolte popolari, era l’imperatore che doveva pensare a tali approvvigionamenti. Fortunatamente di vino ve ne era a sufficienza nel regno mentre la mancanza di grano mette in allarme l’imperatore. Fu così che nel 92 d.C., Domiziano emanò un editto che limitava fortemente la coltivazione della vite, specialmente al di fuori del territorio della penisola oltre le Alpi, in favore della coltivazione di grano. Questo passo segnò profondamente sia gli aspetti inerenti la produzione di vino sia gli aspetti logistici della commercializzazione del vino stesso: se prima c’era un grosso afflusso di vino dalle zone distali dell’impero verso Roma, ora invece è Roma e la penisola italica che deve soddisfare le esigenze dei romani oltre le alpi, in particolare alle legioni. Più il regno romano si espande, più si rende necessario trasportare il vino dall’Italia verso questi territori sempre più lontani.
Tale trasporto avveniva in massima parte via nave all’interno di anfore, ma dove il mare non arrivava (come ad esempio la zona molto bellicosa e ricca di guarnigioni lungo il Danubio) bisognava arrivarci via terra. L’unica possibilità risultava quella di arrivare via nave al porto più vicino a destinazione e completare l’ultimo pezzo trasferendo il vino via terra oltre le Alpi fino a destinazione. Vista la sua dimensione, la sua vicinanza con le Alpi e con l’area danubiana, il porto più idoneo da questo punto di vista risultò essere quello di Aquileia.
In quel periodo Aquileia vide quindi un grosso sviluppo dal punto di vista logistico, soprattutto come porto vinario, dove le navi arrivano, scaricano il vino nelle anfore e per semplificare il trasporto attraverso le Alpi molto di questo vino veniva trasferito all’interno di contenitori in legno più idonei al trasporto via terra. Intorno ad Aquileia si sviluppa quindi anche tutta la filiera di lavorazione del legno per la produzione di botti.
Il successo mercantile di Aquileia come porto vinario dura 200 anni, sino a quando nel 281 d.C., uno dei numerosi imperatori romani di allora (vi erano più imperatori in contemporanea in quel periodo), particolarmente importante in quanto eletto dalla casta militare, Probo, decise che non era più possibile approvvigionare le 500.000 persone appartenenti alle legioni trasportando il vino in massima parte dalla penisola italica.
Probo annullò l’editto di Domiziano rendendo nuovamente possibile la coltivazione della vite oltre le Alpi, ma utilizzando dei vitigni che non erano propri della penisola italica, ma bensì dell’area balcanica e quindi più idonei alle condizioni climatiche dell’Europa continentale. Questi vitigni, i quali facevano riferimento ad una terminologia unica chiamata heunisch (unno, nostro), in quanto Probo era nato nei Balcani, sono come è stato recentemente dimostrato analizzando il patrimonio genetico dei vitigni coltivati, la base di tutti i vitigni che troviamo coltivati nel centro Europa (Francia, Germania ecc..). Questo vitigno è anche quello che sino all'Alto Medioevo ha prodotto i due terzi di tutto il vino europeo. Quindi quando parliamo di vitigni di Bordeaux o della Borgogna parliamo quindi di vitigni che non hanno niente a che fare nè con i greci e i fenici, nè tantomeno con i vitigni coltivati dai romani prima di questa rivoluzione. E’ una rivoluzione perché questa scelta ha modificato la piattaforma ampelografica europea, soprattutto in merito ai vitigni coltivati e alla qualità dei vini che possono essere prodotti in Europa.
La leggenda narra che per ringraziare Probo, di aver permesso nuovamente la coltura della vite in Borgogna, gli abitanti di quei territori regalano all’imperatore una vigna che oggi è chiamata Romanèe-Conti. Questo vigneto di 1,8 Ha è ancora oggi coltivato e produce 450 casse di uno dei vini più costosi al mondo (circa 25.000 euro a bottiglia).
A partire dal II secolo lungo il confine dell’impero romano si venne a creare una situazione di continua conflittualità tra le popolazioni locali, le guarnigioni militari romane e le genti stanziate al di là dei confini, i Barbari. Queste popolazioni inizialmente compiono delle scorrerie all’interno dei confini dell’impero romano con il solo scopo di saccheggiare mentre, dalla seconda metà del IV secolo, le scorrerie si trasformano in vere e proprie migrazioni di intere popolazioni, che da nomadi diventano sedentarie. Nel 395 l’impero romano è suddiviso in una parte occidentale con capitale Roma e una orientale con capitale Bisanzio (Costantinopoli). Nel 476 viene deposto Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore d’occidente ed inizia quel periodo della storia d’Italia definito medioevo che viene convenzionalmente suddiviso in un Alto medioevo (sino all’anno 1000) e in un Basso medioevo, sino al 1492, anno di scoperta dell’America, che è considerata la fine di questo periodo storico. In questo stesso tempo, sino al 1453, anno della conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani, persiste invece l’impero romano d’Oriente.
Sono più di 1000 anni di storia di un periodo tanto lungo quanto complesso che non può non avere ripercussioni anche sulla storia della nostra bevanda, il Vino. All’inizio dell’alto Medioevo l’Europa e l’Italia romane vengono germanizzate, con la formazione dei regni romano-barbarici. Mentre i popoli nomadi germanici diventano sedentari compaiono nuovi nomadi, gli Arabi che rompono l’unità del Mediterraneo a Sud. Inoltre parte dell’Italia meridionale venne occupata dalle truppe dell’impero romano d’Oriente, i Bizantini. Nel 568, una antica popolazione germanica i Longobardi, conquistarono il Veneto e istituirono un ducato con centro a Cividale, ma rapidamente dilagarono in tutta la pianura padana, la Toscana e le zone appenniniche dell’Italia centrale, giungendo sino Spoleto e Benevento. Il regno Longobardo di fatto amministrerà buona parte dell’Italia per i successivi 2 secoli.
La caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) segnò un vero e proprio decadimento per la viticoltura: le invasioni barbariche portarono alla distruzione e all’abbandono di molte coltivazioni e la superficie viticola subì una notevole riduzione.
Mentre le invasioni barbariche rendevano drammatiche le condizioni di vita delle popolazioni dell’impero Romano d’occidente, andarono costituendosi e prendono vigore diverse istituzioni ecclesiastiche e religiose, che presto si sarebbero rivelate forze costruttive di una nuova civiltà. Tra di esse il monachesimo nei secoli che vanno dal IV all’VIII, è forse la più importante. Nel 480 a Norcia, in Umbria nasce Benedetto che verso i quindici anni, dopo essersi ritirato a vita eremitica a Subbiaco, vede crescere attorno a se un gruppo di seguaci, con i quali, trasferitosi successivamente nelle vicinanze di Cassino, fonda un Monastero che diviene rapidamente il più importante centro monastico dell’occidente.
Benedetto getta le fondamenta della nuova società monastica, con la compilazione della sua regola che è un capolavoro di chiarezza e di equilibrio. Per questo ebbe uno straordinario successo e fu adottata come la regola per eccellenza del monachesimo cattolico.
Oltre alla povertà e all’obbedienza, la Regola chiedeva ai monaci di unire al lavoro la preghiera. Il lavoro non era in prevalenza quello manuale dei campi, come spesso si dice, ma erano previsti altri tipi di lavoro, tra i quali quello dello scriptorium, cioè del laboratorio dove si copiavano ed illustravano i libri, interamente prodotti a mano.
Tra il V e il X secolo un importante contributo alla conservazione e al miglioramento del patrimonio vitivinicolo venne dato in Europa dai Vescovi, dai Monaci, dagli Ordini religiosi cristiani e dalla Nobiltà laica. Il vino, oltre ad essere consentito nell’alimentazione delle comunità religiose, era indispensabile per la messa e per la comunione dei fedeli che fino al XII secolo consumavano sia il pane che il vino consacrato.
Nel 742 nasce Carlo definito successivamente Magno, che diventa nel 768 re dei Franchi e grazie ad una serie di fortunate campagne militari (compresa la conquista del regno Longobardo di cui divenne re nel 774) allargò il regno dei Franchi fino a comprendere una vasta parte dell’Europa occidentale. Nell’800 è incoronato a Roma dal papa Leone III primo imperatore dei Romani a costituire il Sacro Romano Impero. Con Carlo Magno si chiude il periodo dei regni romano-barbarici a favore di un nuovo modello di organizzazione della società, il feudalesimo. Carlo Magno, risulta essere quindi il più grande proprietario terriero dell’Europa del suo tempo. Per sfruttare al meglio le risorse generate dalle attività agricole e pastorali emanò tra il 770 ed l’813 il Capitulare de Villis (Decreto sulle ville) per disciplinare le attività rurali, agricole e commerciali delle aziende agricole dell’impero o ville.
Sui settanta capitoli in cui è articolato almeno nove offrono disposizioni circa la coltivazione delle viti e soprattutto la produzione del vino. In particolare:
“I nostri iudices si interessino delle vigne nostre che fanno parte del loro ministerio, le curino bene e il vino lo mettano in buoni recipienti e stiano ben attenti che in nessun modo si guasti, acquistino ulteriore vino, procurandoselo con scambi in natura di animali, da inviare alle villae del re. Nel caso si sia acquistato più vino di quanto sia necessario per il rifornimento delle nostre villae, ce lo facciano sapere perché possiamo decidere quale uso farne. Ricavino dalle nostre vigne ceppi di vite e ce li inviino per impiantare altrove nuove coltivazioni a nostro vantaggio. I canoni in vino versati dalle nostre villae li inviino alle nostre cantine.”
“I torchi nelle nostre villae siano efficienti e funzionari. I nostri iudices provvedano che nessuno si permetta di pigiare la nostra uva con i piedi, ma tutto si faccia con decoro e pulizia.”
“Vogliamo che ogni singolo iudex abbia sempre pronti dei buoni barili cerchiati di ferro, che possano essere utilizzati nelle spedizioni militari o inviati a palazzo, e non faccia mai otri di cuoio.”
La forte ripresa della viticoltura che si coglie dalle fonti d’archivio a partire dalla seconda metà dell’VIII secolo, costituisce il riflesso di un consistente incremento demografico che trova nella rinascita dei centri urbani uno degli indicatori più evidenti e allo stesso tempo l’effetto di sistemi innovativi come il ricordato capitolare di gestione del grande dominio fondiario.
Non dobbiamo infine dimenticare l’influenza del cambiamento climatico che vede tra il VII ed il XIII secolo il verificarsi di un periodo di riscaldamento globale del continente europeo.
A partire da Carlo Magno assistiamo al passaggio nel mondo rurale dall’economia della Villa romana alla cosiddetta “economia curtense” caratterizzata dalla Corte, cioè quell’insieme di ville ed edifici dove il signore soggiornava ed espletava le sue funzioni di controllo sul territorio.
Ben presto l’Europa, dopo aver conosciuto un momento di prosperità durante la nascita dell’impero carolingio, ripiomba nell’insicurezza e nella difficoltà indotta dalla mancanza di un potere centrale causata da una vera e propria destrutturazione dell’organizzazione regia carolingia, senza garanzia della salvaguardia dei cittadini. Il tutto venne poi aggravato dalle nuove incursioni di Normanni, Saraceni e Ungari.
In quel contesto nacque “dal basso” la richiesta di nuove strutture che andassero a colmare spontaneamente quei vuoti di potere deferiti dalla lontana monarchia imperiale. Nacque così la necessità di proteggersi all’interno di castelli, con la costruzione di insediamenti fortificati da cinte murarie, dove era presente la dimora del signore locale, i magazzini delle derrate alimentari, degli strumenti di lavoro e delle armi, le abitazioni del personale e, attorno ad esso, le varie unità insediative e produttive. Le persone che gravitavano attorno al castello erano tutte legate da precisi rapporti di dipendenza al signore. Almeno in via teorica esisteva un sistema gerarchico piramidale per cui i pubblici ufficiali, nominati dall’imperatore (duchi, marchesi e conti), dipendevano dal sovrano.
Anche se da un punto di vista teorico era possibile la proprietà privata, nel IX e nel X secolo si assiste all’emanazione di regole che di fatto obbligano tutti gli uomini a porsi sotto la protezione di un signore.
Nello stesso periodo il papato e i carolingi intessono delle relazioni che si riveleranno vantaggiose per le due parti e cariche di conseguenze per la storia dell’Occidente europeo e si afferma per la prima volta un’autorità politica del Vescovo di Roma su un territorio, non ben precisato ancora nei suoi confini, ma che si estende oltre l’ex capitale dell’Impero romano. Questa alleanza con la nuova dinastia dei Franchi si fa ancora più marcata con Carlo Magno, che sancisce definitivamente i limiti del territorio di quello che sarà lo Stato Pontificio, e soprattutto estende la liturgia romana su tutti i territori del suo nuovo impero e sugli Stati satelliti (eliminando in questo modo le peculiarità liturgiche locali).
La disgregazione dell’impero carolingio segna per il papato un periodo di decadenza raggiungendo nel X secolo (Saeculum obscurum) il punto più basso toccato dalla chiesa romana in tutta la sua storia. Il papa perde il prestigio in tutta la cristianità e diventa un burattino nelle mani delle famiglie aristocratiche di Roma. Inoltre l’insieme del mondo religioso occidentale è sottomesso al sistema feudale, che considera i monasteri e le diocesi, i titoli di abate e vescovo come semplici titoli da trasmettere in eredità, come beni di famiglia.
Nel pieno del Saeculum Obscurum, quasi per compensazione, sorsero una serie di centri monastici che esercitarono una straordinaria autorità morale sulla cristianità.
Il principale di essi fu l'abbazia di Cluny, fondata nell'omonimo paese dell'allora regione della Borgogna nell'anno 909.
L'abbazia, che adottò la Regola benedettina, origina un ordine proprio definito cluniacense. La sua costellazione di dipendenze acquisirono presto grandissima rilevanza politica ed economica e giunsero ad esemplificare il tipo di vita religiosa caratteristico del X e dell'ix secolo sino a superare la casa madre di Montecassino.
Diversi tra gli abati che si susseguirono a Cluny, molti dei quali estremamente dotti, divennero anche uomini di stato, noti a livello internazionale. Tra questi vi fu Ildebrando Da Soana, che divenne papa con il nome di Gregorio VII. Lo stesso monastero di Cluny divenne tra il X ed il XII la più famosa, prestigiosa e sovvenzionata istituzione monastica d'Europa.
All’improvviso, nell’aprile del 1112, nella stessa valle della Saona ove sorge l’abbazia di Cluny compare un giovane di straordinario talento chiamato Bernardo de Fontaine (in latino: Bernardus Claravallensis, italianizzato in Bernardo di Chiaravalle) che cambiò tutte le regole del gioco. All’età di ventun anni, a capo di un gruppo di trenta giovani della buona società, entrò nel piccolo monastero di Citeaux sempre in Borgogna che era stato fondato solo quattordici anni prima da un ascetico frate nero chiamato Roberto Di Molesme a cui succede un abate inglese, Etienne Harding.
Citeaux era esattamente il contrario di Cluny: una piccola fattoria nella foresta con un forte senso della propria missione diversamente dalle altre che erano invece diventate come visto dei centri di potere.
I suoi monaci fecero proprio il nome di Citeax, scegliendo di chiamarsi Cistercensi e si vestirono di bianco anziché di nero.
Il novizio Bernardo spinse e suoi seguaci sino ai limiti delle umane possibilità: vivevano secondo la severa regola di San Benedetto, ma con un fervore da rivoluzionari.
Dopo 3 anni trascorsi nel Monastero di Citeaux nel 1115 dodici monaci guidati da Bernardo de Fontaine danno vita, in una valle della Champagne, al Monastero di Clairvaux (da qui il suo nome più conosciuto di Bernardo di Clairvaux italianizzato in Bernardo di Chiaravalle) dove resterà come Abate sino alla sua morte nel 1153.
Bernardo si distingue per una inesauribile attività in ambito pastorale, sono famosi i suoi sermoni di cui si narra che le donne evitassero di portare figli e mariti per non rischiare che fossero convertiti alla vita monastica.
Anche la sua attività ad organizzare la comunità monastica è degna di nota se si pensa che, in base alla regola introdotta da Bernardo, quando la comunità monastica superava le 64 unità, 12 monaci dovevano lasciarla per fondarne una diversa in un altro luogo. Con questo meccanismo le comunità cistercensi si insediarono in tutti gli angoli del continente europeo cristiano dal Portogallo alla Ungheria, Dalla Svezia all’Italia meridionale. Alla morte di Bernardo le comunità Cistercensi erano 343 per arrivare nel periodo di massima diffusione ad essere oltre 700. Fatta salva la piena autonomia di ogni monastero, una volta all’anno gli Abati si riunivano in un Capitolo generale a Citeaux per definire le strategie future della comunità e le decisioni prese avevano carattere vincolante. L’espansione dell’Ordine fu diretta dal Capitolo Generale, applicando un programma prestabilito, nella cui stesura Bernardo ebbe una grande influenza, nella costruzione dei nuovi monasteri. Il risultato fu una grande uniformità nelle abbazie di tutta Europa con costruzioni che prescindono dagli ornamenti e dagli orpelli. Bernardo dirigeva personalmente la progettazione degli edifici religiosi delle nuove comunità ed i Cistercensi furono tra i primi ad aderire alle nuove tendenze dell’architettura religiosa a quello che è chiamato “stile di transizione” che porterà nei secoli successivi a costruire le chiese non più in stile romanico ma gotico.
Infine Bernardo si distingue per un’intensa attività politica sia ad influenzare le scelte della chiesa che ad incidere pesantemente nei destini politici dei regni Europei. Ad esempio la notevole influenza della comunità monastica nella scelta dei Papi e due Papi Eugenio III e Benedetto XII provennero dall’ordine cistercense. Bernardo viene scelto dal papa Eugenio III come predicatore per promuove la (disastrosa) seconda crociata, e cosa poco conosciuta, contribuì alla redazione della regola, chiaramente su modello cistercense, dei cavalieri Templari, cioè dei monaci con la spada che avranno il compito di difendere la vita dei pellegrini in Terrasanta. Bernardo indica la figura del Cavaliere del Tempio, come un monaco-guerriero, che fa uso di due spade: una, da impiegarsi nella lotta contro il Male, una lotta prettamente interna alla persona e spirituale, e l'altra da porre in difesa degli ultimi e oppressi, che erano i pellegrini sottoposti alle angherie dei Saraceni, i quali ne attaccavano spesso i convogli.
Mi piace poi ricordare un’azione di Bernardo che avrà una notevole influenza indiretta sulla storia dell’enologia. Dopo essersi assicurato un notevole appoggio politico alla organizzazione della seconda crociata trova l’appiglio legale che permette al tribunale ecclesiastico di annullare il matrimonio di Eleonora d’Aquitania con il Re di Francia Luigi VII. Eleonora libera da vincoli matrimoniali potrà quindi sposarsi con il Futuro Re d’Inghilterra Enrico II.
L’Aquitania, che vantava all’epoca, un territorio pari ad 1/3 dell’attuale Francia, per più di 2 secoli risulterà essere un territorio inglese in Francia e l’Aquitania è la regione intorno alla città di Bordeaux.
Pur emettendo voto di povertà, i cistercensi non misero mai in discussione il possesso di terre o denaro: anzi, nel capitolo generale del 1134 si permise espressamente la possibilità di acquistare terre, vigne, pascoli, boschi e corsi d’acqua. Solo grazie a questi beni i monaci sarebbero stati in grado di provvedere a se stessi con il loro lavoro. Poiché l’adempimento degli uffici corali non lasciava ai monaci il tempo necessario per il compimento dei lavori agricoli vennero accolti nei monasteri dei conversi cioè dei religiosi laici destinati unicamente al lavoro manuale.
L’impiego di questa forza lavoro non retribuita consentì all’ordine di organizzare un proprio sistema economico basato su aziende agricole mediamente di 150 ettari, dipendenti dai monasteri, chiamate Grange. Questo sistema molto efficiente fece dei cistercensi i maestri nelle tecniche di bonifica, coltivazione, acquacoltura ed allevamento ovino.
Quando i cistercensi rinnovavano un vigneto trascurato, o ne piantavano uno nuovo, studiavano con cura le piante più adatte (quello che oggi si definisce selezione massale) sperimentando diversi tipi di potatura, prelevando talee e facendo innesti, vinificando con la massima cura, e soprattutto affidandosi al senso del gusto. Il loro contributo più importante allo sviluppo del vino fu il concetto di cru: una porzione di vigneto omogenea, che di anno in anno produceva vini di qualità e sapore identificabile e costante distinguendosi dalla massa del prodotto (oggigiorno definita zonazione).
Nella loro diffusione europea il sapere dei cistercensi identifica delle zone di maggiore qualità per la vitivinicoltura. Zone che ancora oggi sono considerate i distretti enologici più importanti nel mondo.
Ad esempio in Borgogna il laboratorio delle loro ricerche di perfezione: il Clos de Vougeot è ancora oggi considerato uno dei terroir migliori della regione e per qualche secolo il vigneto di Romane-Conti, già citato in una puntata precedente, è di proprietà dei Benedettini.
Altri esempi li possiamo trovare nella Mosella ove ancora oggi primeggia Mönchhof (la casa dei monaci) che rappresenta una delle tenute viticole più antiche, fu di proprietà dei Cistercensi dell’Abbazia di Himmerod dal 1177 alla fine del 1800.
O nel Rheingau dove nel 1136 per volere di Bernardo viene fondata da 12 monaci l’Abbazia di Eberbach che inizia a produrre vini di qualità rinomati in tutta la Germania. In questo ultimo caso si documenta che nel suo periodo di massimo sviluppo il reddito proveniente dalla vendita del vino prodotto provvedeva alle necessità di tutta la comunità.
Un piccolo sguardo al Friuli, l’Abbazia di Rosazzo, non fu mai dimora Cistercense ma nel 12 secolo era abbazia benedettina di dipendenza della casa madre carinziana di Millastatt. E’ chiaro che i Cistercensi pur vestendosi di bianco per differenziarsi dai Benedettini neri non avevano smesso di comunicare con i confratelli e quindi le conoscenze vitivinicole erano un patrimonio comune degli ordini monastici.
I monaci Cistercensi possono essere quindi considerati a tutti gli effetti i primi Enologi della Storia.
In Italia con la progressiva dissoluzione, a partire dall’anno Mille, della organizzazione feudale, alla viticoltura ecclesiastica si affiancò ben presto una viticoltura laica e signorile, sorta per imitazione e per motivi di prestigio, ma trasformatasi in seguito in fonte di sicuro reddito economico. Il vino prodotto in quantità sempre maggiori nelle grandi proprietà ecclesiastiche e laiche, non poteva essere consumato tutto in loco e pertanto se le condizioni viarie e specialmente fluviali lo permettevano il prodotto veniva commercializzato. Ad esempio il mondo padano pagava in gran parte col vino il sale trasportato dai Veneziani che a quei tempi “non arat, non seminat, non vendimiat” .
Alla viticoltura ecclesiastica ed a quella signorile si affiancò dopo il Mille una florida “viticoltura borghese” continuamente in espansione, in parallelo con l’affermarsi sempre più deciso di una classe mercantile che disponeva, in misura sempre maggiore, di capitale fresco da investire nelle campagne e che prediligeva la viticoltura, riscontrando nel consumo del vino uno dei segni più tangibili della propria ascesa sociale.
Col XII secolo le città si espandono e conquistano l’autonomia politica. La nascita dei comuni favorisce ampiamente la crescita economica e sociale, e poi anche politica, della classe mercantile ed artigianale, che per affermare il proprio orgoglio di classe consumo in modo ostentato il vino, e acquista piccoli vigneti suburbani terre da mettere a coltura della vite per garantirsi un sicuro consumo familiare. E’ dunque la città a promuovere il grande sviluppo che la viticoltura conobbe in Italia nel XII secolo. Il contadino, pur essendo in parte migliorate le sue condizioni sociali ed economiche e pur trovandosi non di rado, grazie ai contratti di pastinato e ad meliorandum, proprietario di piccoli appezzamenti a vigneto, coltiva la vite e produce il vino, ma continua a non berlo, perché a differenza dei cereali, può tranquillamente disfarsene, per assicurarsi con la vendita il danaro necessario per comperare tutti gli altri generi necessari a lui ed alla sua famiglia per la sopravvivenza. Il contadino pertanto, beve abitualmente vino di vinaccia cioè posca.
Nel XII secolo assistiamo dunque ad una situazione di netta frattura nel campo dei consumi alimentari tra chi abita all’interno delle mura urbane e chi abita oltre le mura, tra il cittadino che anche nei suoi strati più bassi consuma vino per dimostrare il suo stato sociale ed il contadino che produce il vino, ma poi non lo beve per poterlo vendere. Se il bere vino equivaleva sino al XI secolo qualificarsi come nobile od ecclesiastico nel XII secolo equivale a definirsi borghese o più genericamente cittadino.
Ma intanto l’estensione della viticoltura continuava ad avanzare, in aperta campagna e nelle terre di recente disboscate e dissodate, risale i fianchi delle montagne e s’insinua persino nei terreni paludosi della bassa pianura. La produzione di vino aumentò, nei decenni a cavallo tra il XII ed il XIII secolo, in modo esponenziale, avendo di mira, ovviamente la quantità e non la qualità, e fu a questo punto che il consumo di vino divenne nuovamente come in età tardo romana un consumo universale, così in città come in campagna, così in pianura come in montagna. Bere vino era ormai diventato, in piena età comunale, non più una scelta, ma una necessità, non più consumo voluttuario, ma un’abitudine quotidiana.
Il vino in assenza di altre bevande introdotte soltanto in età moderna era una delle pochissime bevande medioevali, ed era certo più sano ed igienico dell’acqua tratta da pozzi spesso fangosi ed inquinati. Il vino infine era una delle poche forme di “evasione” che la società medioevale poteva offrire a chi intendeva sfuggire per qualche ora alle tribolazioni ed al grigiore della vita quotidiana.
Ed è al vino fonte di gioia e di spensieratezza che rivolgono la loro attenzione non solo gastronomiche, ma anche culturali i “clerici vagantes” gli studenti di tutta Europa che accorrono dapprima a Bologna e poi in molte altre città dove sono sorte le Università per lo studio del diritto, della medicina e delle Scienze.
La città basso-medioevale risuona così di festosi canti goliardici che demonizzano l’acqua, responsabile, tra l’altro del Diluvio Universale, che disprezzano il latte e la birra e che esaltano il vino perché se dolce e glorioso rende grassi e floridi, allontana i malanni fisici, dà gusto alla vita, allontana il freddo, aguzza i sensi e rende l’uomo baldanzoso.
IN TABERNA QUANDO SUMUS
In taberna quando sumus,
non curamus quid sit humus,
sed ad ludum properamus,
cui semper insudamus.
Quid agatur in taberna
ubi nummus est pincerna,
hoc est opus ut queratur,
si quid loquar, audiatur.
Quidam ludunt, quidam bibunt,
quidam indiscrete vivunt.
Sed in ludo qui morantur,
ex his quidam denudantur
quidam ibi vestiuntur,
quidam saccis induuntur.
Ibi nullus timet mortem
sed pro Baccho mittunt sortem (…)
Bibit hera, bibit herus,
bibit miles, bibit clerus,
bibit ille, bibit illa,
bibit servus cum ancilla,
bibit velox, bibit piger,
bibit albus, bibit niger,
bibit constans, bibit vagus,
bibit rudis, bibit magus (…).
Estratto dal CARMINA BURANA di Carl Horf
“Fa che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo” – Ippocrate
In ogni uomo esiste una forza curatrice naturale, una forza vitale che se viene mantenuta in equilibrio, persegue spontaneamente lo stato di salute. Essa non può essere sostituita da nulla, non può essere deviata, non può essere curata. Può solo essere stimolata a mantenersi come si trova in origine, nel perfetto equilibrio delle sue parti
Con il fiorire delle prime arti mediche, anche la tavola dei nostri avi venne stravolta. Riprendendo i lavori dell’epoca classica di Galeno, la cucina medievale veniva costruita dividendo il corpo in 4 umori, corrispondenti a 4 liquidi che sono contenuti nel nostro corpo. In base allo stato di salute veniva costruito un piano alimentare adeguato.
A questi quattro umori corrispondevano quattro stati d’animo: collerico, sanguigno, flemmatico e melanconico (figura 1). Un loro sbilanciamento faceva sentire male il corpo. La scuola medica consigliava la birra per agevolare la diuresi ed il vino bianco rispetto al nero considerato troppo forte. Pertanto alle classi nobili o borghesi non avvezze a pesanti lavori manuali solo vini bianchi, rosatelli (chiaretti) ed anche dolci mentre per il popolo lavoratore vini più corposi anche neri. Infine per i corpi debilitati dalle cure mediche invasive dell’epoca quali i salassi vini rossi (vino rosso fa buon sangue).
Nel corso del Medioevo risultò spesso molto problematico nutrirsi a sufficienza. La dieta del popolo era generalmente frugale. Un solo pasto cucinato al giorno costituito da una zuppa di legumi e due volte alla settimana un po' di carne bollita o arrostita. Di venerdì e durante la Quaresima si mangiava pesce. Il tutto accompagnato da una grande quantità di pane a costituire quindi la base dell’alimentazione mentre gli altri componenti del pasto costituivano il companatico. Ad insaporire il pasto si faceva un uso importante di pepe. Come bevanda: acqua o vino da vinaccia (posca) annacquato, perché il vino genuino si beveva alla taverna o osteria, fra uomini, prima o dopo il pasto serale.
La classe abbiente invece, amava gli eccessi della tavola che con l’abbigliamento erano parte dell’estetica del potere in cui si riconoscevano aristocratici e borghesi. I ricchi mangiavano tre volte al giorno con un consumo quasi quotidiano di carne e sovrabbondanza di spezie e sale (figura 2). Fattore di ulteriore differenziazione stava nella raffinatezza e varietà dei vini, alle volte importati da altre zone vinicole o addirittura dall’estero.
I monaci bevevano vino non sola al naturale, ma anche aromatizzato (all’anice, al rosmarino, all’assenzio come aperitivo), o bollito e speziato con la cannella, i chiodi di garofano, le mandorle dolci, con un po' di muschio e di ambra come l’hypocras (da Ippocrate), o ancora con un’aggiunta di miele come il pigmentum, bevuto il Giovedì santo e infine aromatizzato con chiodi di garofano, pepe e noce moscata come il claret.
Un’altra fonte di domanda per il vino veniva dall’uso che se ne faceva in medicina, in particolare da parte dei monaci e dei Cavalieri Ospedalieri. Fin dalle origini il vino era stato usato a scopi medicinali e Ippocrate di Cos uno dei più eminenti medici dell’antichità, “lo prescriveva per curare le ferite, come bevanda nutriente e come antifebbrile, come purgante e come diuretico”. Galeno a sua volta faceva grande uso di vini medicinali e fu grazie alla diffusione delle sue opere in epoca bizantina che l’uso del vino come medicinale riuscì a sopravvivere al crollo dell’impero romano d’Occidente. La raccomandazione di Galeno di usare il vino per curare le ferite, per rinvigorire i fisici debilitati e come febbrifugo fu ampiamente seguita nell’Europa del Medioevo. Ma fu il “Liber de Vinis” del medico catalano Arnaldo de Villanueva (1235-1311) (figura 3) a stabilire con fermezza l’uso del vino come sistema terapeutico riconosciuto durante il tardo Medioevo. Tra l’ampia lista degli usi medicamentosi del vino Arnaldo de Villanueva sottolineò le qualità antisettiche, corroboranti e ne consigliò l’uso nella preparazione degli impiastri.
A differenza della maggior parte dei libri del medioevo che erano rifacimenti dei classici il Liber de Vinis (figura 4) era un’opera originale che presentava dei pareri medici sul vino. Villanova affronta inoltre il soggetto dell’assaggio del vino e dei trucchi che alcuni commercianti utilizzano per imbrogliare il compratore (infinocchiare). Il libro suggerisce rimedi per i vini che hanno odore cattivo o un brutto colore e per quelli che hanno perso il sapore. Compila inoltre una lista di vini aromatizzati da usare come rimedio per ogni sorta di malattia ad esempio il vino al rosmarino le cui “meravigliose qualità” comprendono quelle di regolare l’appetito, esilarare l’anima, raddrizzare i tendini, rendere bello il viso e fare crescere i capelli. Infine introduce come ingrediente nei vini medicinali, l’acquavite cioè del distillato alcolico dei vini.
Per tutto il periodo medioevale il vino fu uno dei pochi liquidi capaci, per effetto del suo contenuto alcolico, di sciogliere e nascondere il sapore delle sostanze ritenute curative dai medici dell’epoca. Le teriache, una sorta di vini medicati, entrarono così in uso per una quantità di affezioni diverse.
Infine per i conoscitori di vino del Medioevo, la questione dell’invecchiamento del vino aveva ben poco interesse, salvo per ciò che riguardava la salute del consumatore: Bere vino troppo giovane può provocare forti dolori di ventre. Se il vino aveva più di un anno, probabilmente era andato a male perché i contenitori in legno non sanificabili e permeabili all’ossigeno favorivano le alterazioni microbiche (acescenza) e chimico-fisiche (ossidato). La scelta era pertanto decisamente limitata.
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